XVI.

Direzioni di attività letteraria del Cinquecento fra maturità e fine del Rinascimento

1. Il teatro: tragedia e commedia

Di fronte ai secoli precedenti, in cui una vera e propria attività teatrale aveva trovato espressione soprattutto nelle sacre rappresentazioni con qualche sporadico diverso tentativo profano nel periodo umanistico (soprattutto l’Orfeo del Poliziano), il Cinquecento conferma la propria capacità di nuova promozione di «generi» e direzioni di nuova attività letteraria anche nella notevole iniziativa di una letteratura teatrale che, mentre si rivolge classicisticamente all’autorità esemplare degli scrittori teatrali latini e greci, tenta insieme – con varia originalità, efficacia, consonanza con condizioni storiche e culturali – di portare sulla scena e nell’azione dialogata e teatrale ideali e affetti moderni. E cosí facendo – lo si ricordi subito – promuove una nuova vita del teatro in tutta Europa porgendo esempi, procedimenti tecnici, nonché viva esperienza di rappresentazione scenica al grande teatro inglese (fino a Shakespeare) o spagnolo (fino a Lope de Vega e a Calderón de la Barca) o francese (nelle premesse cinquecentesche del grande teatro di Corneille, Racine e Molière).

Anche in questo campo dunque l’Italia del Rinascimento fu maestra ed educatrice della civiltà letteraria europea, anche se – come dicevo – con opere e direzioni di varia forza e originalità.

Cosí indubbiamente piú velleitaria fu l’ambizione italiana di operare attivamente nel campo della tragedia, in cui piú forte e limitativo si fa avvertire il peso della fedeltà ai classici e alle «regole» delle unità – di tempo, di luogo, di azione – desunte dalla Poetica di Aristotele, cosí come piú avvertibile è l’oscillazione fra una regolarità e compostezza lineare e semplice (quale è quella che contraddistingue la decorosa e tenue Sofonisba, del 1515, del vicentino Giangiorgio Trissino, autore anche di un infelice e frigido poema classicistico, l’Italia liberata dai Goti) e il prevalere – crescente con il passaggio del gusto del secolo verso forme meno armoniche e piú risentite e cupe – di una drammaticità violenta e sforzata fino ai limiti di un’atrocità quasi grottesca, quale soprattutto si presenta piú efficacemente nelle tragedie del ferrarese Giambattista Giraldi Cinzio (1504-1573) come l’Orbecche (1541) o ancor piú debolmente nella Canace del padovano Sperone Speroni (1500-1588).

Se sostanzialmente piú velleitaria che riuscita è l’iniziativa tragica – anche malgrado la maggior felicità dell’Orazia dell’Aretino o certo maggior vigore di fondo politico delle tragedie di Pomponio Torelli –, il forte interesse teatrale del secolo provoca piú abbondante e originale produzione nel campo della commedia, che – e si ricordi già il capolavoro del Machiavelli, la Mandragola – appare connessa con autentici elementi comici e realistici dell’epoca, capaci anche di sfociare senza incoerenza nel dramma soprattutto entro una prospettiva piú chiaramente realistica, alimentata da un forte attrito con la realtà e la psicologia umana, con le condizioni storiche e sociali del tempo.

Due direzioni nella commedia cinquecentesca si impongono alla nostra attenzione: quella piú legata al classicismo e all’«imitazione originale» dei comici antichi, soprattutto Plauto e Terenzio, e quella che con maggiore ricorso alle risorse della realtà sociale e umana, fino a quelle della realtà popolare e contadina, si muove piú liberamente e con minore rispetto dell’esemplarità classica.

La prima direzione fu aperta – l’abbiamo detto nel capitolo ariostesco – dalle commedie dell’Ariosto, che già dimostrano d’altra parte come anche la commedia dotta e classicheggiante potesse ben assorbire elementi realistici e riuscire a forme tutt’altro che puramente pedantesche e frigide. E cosí – se spesso in questa direzione si rimane sul piano della imitazione di classici insaporita da scenette piú vive e dal giuoco linguistico piú libero – commedie come la festosissima Calandria del cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena e le stesse piú meccaniche numerose commedie di Gianmaria Cecchi o quelle tanto piú esuberanti e fantasiose del napoletano Giambattista della Porta (per non dir poi degli Straccioni del Caro cui accenneremo parlando di questo notevole personaggio o della Raffaella di Alessandro Piccolomini) ben superano la base dell’«imitazione originale» dei classici per una loro variamente viva capacità di vitalità comica, affettuosa, realistica. Nella seconda direzione (a sua volta non certo priva di elementi di educazione letteraria e dunque tutt’altro che opera di autori incolti) si collocano alcune delle opere teatrali piú vive e importanti del nostro teatro cinquecentesco.

Saranno le cinque commedie in prosa dell’Aretino (per le quali rimandiamo al paragrafo dedicato a questo originale scrittore), o le anonime commedie Gli ingannati e la appassionata e spregiudicata Venexiana, rappresentazione di un amore francamente sensuale, ma cosí schietto e vigoroso da sfociare, a tratti, addirittura nel dramma.

O saranno – in una forma di teatro piú chiaramente popolareggiante e legato all’attività di scrittori che erano insieme attori e capocomici – le commedie del veneziano Andrea Calmo o quelle, tanto superiori e collocabili fra i piú alti capolavori del teatro cinquecentesco, del padovano Angelo Beolco, detto il Ruzzante (1502-1542).

Questi, tutt’altro che ignorante e sprovveduto di solida cultura umanistica (ché la stessa affettuosa protezione del patrizio veneto Alvise Cornaro gli permise un’assidua frequentazione degli uomini piú colti di Padova e Venezia), ben rappresenta una cosciente reazione al classicismo piú imitativo e accademico e una chiara volontà di trarre poesia dalla energica rappresentazione della realtà presente sia nelle sue condizioni storico-sociali sia nella naturale concretezza dell’uomo con i suoi bisogni, le sue passioni, i suoi sdegni, le sue miserie: rappresentazione che, solidamente munita di preparazione e ispirazione scenica, si volge soprattutto al mondo dei contadini sfruttati, dominati dai sentimenti elementari e potenti del bisogno amoroso, della reazione alla miseria e alla fame, alla prepotenza dei ricchi, alle infinite sventure provocate dalle guerre, dalle devastazioni, dagli avvenimenti storici particolarmente gravanti sulla indifesa debolezza delle classi subalterne.

Da questo nuovo e storico scandaglio in una realtà, che sfuggiva allo sguardo della letteratura piú aulica e idealizzante, e dalla possente interpretazione artistica che il Ruzzante ne dà nel suo teatro, nascono alcuni dei suoi capolavori in cui comicità e dramma si fondono, coerentemente traducendo quel sentimento profondo della realtà contadina in un linguaggio (il «pavano»: il dialetto padovano della campagna) che è esso stesso un misto di invenzione e di riproduzione realistica di singolare efficacia.

Al culmine di questa lunga attività di scrittore teatrale si trovano infatti opere come il Parlamento de Ruzante che iera vegnú de campo e la Moscheta, in cui campeggia la figura del villano rappresentata con simpatia affettuosa e insieme con dura incisività nella sua misera condizione, nei suoi vani tentativi di sfuggire a quella, nel suo doloroso ricadere, battuto e deluso, in un mondo squallido e senza vera possibilità di salvezza. Nel Parlamento viene rappresentato il villano reduce dalla guerra in cui aveva inutilmente cercato scampo alla sua miseria facendosi soldato di ventura e restituito – dopo le prove della vita militare, rievocata nelle sue assurde violenze e nelle sue infinite vergogne, nella paura di una morte senza ragione – alla triste realtà della sua condizione di sfruttato e di oggetto passivo della storia. Nella Moscheta ancor piú profondamente si esprime la tragicommedia del solito protagonista contadino che inutilmente oppone velleità di violenza e di astuzia alla congiura di uomini e cose che lo travolgono e lo lasciano tradito e battuto, con la complicità della stessa moglie, avida e insoddisfatta, del compare, del soldato di ventura che si è insediato in casa sua rubandogli la donna e le sue povere cose.

2. La commedia dell’arte, il dramma pastorale e il melodramma

Se già in certe dichiarazioni del Ruzzante affiora l’idea che la letteratura teatrale ha esigenze particolari rispetto all’altra forma della letteratura («molte cose stanno bene nella penna, che nella scena starebbero male») e che essa è indissolubilmente legata alla viva recitazione e alla scena, tale coscienza della preminente destinazione delle opere drammatiche alla recitazione e al movimento scenico trova – nel ricchissimo terreno della vita teatrale cinquecentesca italiana – un particolare esito in quella «commedia dell’arte» che, iniziata appunto nel tardo Cinquecento, continuerà la sua vita fino alla riforma settecentesca del Goldoni e costituirà – pur con i suoi limiti – uno degli apporti piú cospicui e specifici della civiltà artistica italiana al teatro europeo. Se il teatro vive soprattutto sulla scena e nella recitazione e mimica degli attori professionisti, da parte di questi, organizzati in vere e proprie compagnie stabili che si spostavano di città in città, si giunse a concepire la stessa opera comica come non bisognosa di un testo interamente scritto, sostituito da una semplice trama scritta («soggetto» o «canovaccio») sulle cui indicazioni sommarie gli attori improvvisassero sulla scena le varie battute. Ne nacque un tipo di commedia «improvvisa» in cui la genialità dei singoli attori costruiva effettivamente l’azione, anche se si appoggiava spesso a «repertori» di battute e di scherzi e si imperniava in personaggi stilizzati nei loro caratteri di base e sin nel loro abbigliamento e nei loro particolari linguaggi, attraverso la ripresa delle maschere della tradizione locale italiana: come Arlecchino, Pantalone, Pulcinella, Brighella, Colombina.

Sarà soprattutto il Seicento a dar maggior forza, con il suo amore per il bizzarro, l’estroso, lo stravagante, a questa singolare forma teatrale e insieme ad aggravarne i difetti di disorganicità, di grossolanità, di scurrilità (e insieme di rigidezza ripetitoria di luoghi comuni di scherzi e battute), ma insieme arricchendone la indubbia suggestione di tumultuosa e mobile spettacolarità, arricchita da espedienti scenografici, e la indubbia abilità mimica ed inventiva di alcuni grandi attori, che ebbero grande successo e prestigio in tutta Europa.

Ma gli inizi di questa nuova forma teatrale furono prodotti dalla grande matrice cinquecentesca. Cosí come l’inventività di questo grande secolo troverà ancora, in campo teatrale, altra prova della sua eccezionale fecondità nella lenta trasformazione delle brevi favole pastorali e mitiche di origine umanistica (come l’Orfeo del Poliziano) in piú costruiti e organici drammi pastorali che troveranno il loro capolavoro nell’Aminta del Tasso e un notevolissimo prodotto artistico nel Pastor fido del ferrarese Battista Guarini (1538-1612), leggiadra, maliziosa e sensuale espressione elegantissima di quel bisogno di idillio e di evasione che è una delle venature del secolo specie nella sua ultima fase. Quando, in forme piú precise ed esplicite di accordo fra poesia e musica, e quindi ad opera di una collaborazione fra letterari e musicisti (specie nell’ambito della fiorentina Camerata de’ Bardi, animata dalla presenza di un teorico come Vincenzo Galilei, di musicisti come il Peri e il Caccini, di poeti come Ottavio Rinuccini), l’ultimo Cinquecento dette vita a quel melodramma (o dramma per musica) che avrà tanto sviluppo e fortuna nel secolo successivo, adeguandosi allora alle esigenze del gusto barocco e superando (e insieme alterando) la nitida semplicità dei melodrammi cinquecenteschi: quale soprattutto si ritrova, elegante, gentile ed espressivamente patetica, nei «libretti» o testi per musica del ricordato Ottavio Rinuccini (1564-1621), come la Dafne, l’Euridice e l’Arianna, musicata dal grande compositore Claudio Monteverdi, che, a sua volta, tanto ritrasse nella sua musica dello spirito piú altamente patetico della grande poesia tassesca, già cosí fortemente tesa ad una sua intima e intensa musicalità.

3. La novella

Un altro terreno di prova della fertilità letteraria cinquecentesca è costituito dalla novellistica, in cui il gusto e la passione del narrare, fra attrazione della realtà e spinta della fantasia, si collegano profondamente alla forte vocazione del secolo alla espressione della vita umana e mondana nella sua varietà di comportamento, di psicologia, di virtú, passioni e vizi naturali degli uomini, entro il condizionamento di situazioni ambientali ed entro il giuoco comico e drammatico degli avvenimenti e delle avventure provocate dalla «fortuna», dal caso e dal destino. Donde un enorme materiale narrativo variamente elaborato artisticamente, ma sempre importante per la sua ricchezza di trame e di indagine psicologica e come tale fortemente presente agli scrittori europei sia novellieri sia drammaturghi: il caso ancora di Shakespeare che si serví della trama di due novelle italiane per la costruzione del Giulietta e Romeo e dell’Otello.

Certo, come in altre direzioni e generi letterari, nella novellistica il Cinquecento aveva un alto esempio di struttura, di temi, di linguaggio nel capolavoro della novellistica e della prosa italiana trecentesca: il Decameron del Boccaccio che già, come dicemmo, il Bembo aveva proposto come assoluto modello per la prosa contemporanea. E ad esso effettivamente la maggior parte dei novellieri cinquecenteschi guardò riprendendone in genere la costruzione – novelle inquadrate entro una cornice e disposte in giornate di narrazione – e infiniti spunti tematici e moduli linguistici. Ma sarebbe errato ridurre la complessità e la varia originalità della novellistica cinquecentesca a una monotona imitazione del Boccaccio, cosí come abbiamo pur visto come sarebbe errato ridurre la lirica petrarchistica a una semplice e fredda imitazione del Petrarca.

In realtà l’esempio del Decameron agí da stimolo e da sostegno ad una narrativa che aveva proprie autentiche esigenze storiche e artistiche e che nei numerosi casi di personalità originali riuscí a tradurle in forme nuove e spesso di alto valore, a parte il fatto che in una storia piú minuta e particolareggiata dovrebbe tenersi conto anche di particolari tradizioni e condizioni regionali e cittadine come sollecitatrici di varie maniere del narrare novellistico.

Basti almeno, per questa indicazione, ricordare la particolare corrente novellistica senese (con rappresentanti notevoli come soprattutto Pietro Fortini), che riprende la tradizione novellistica senese già viva nel Quattrocento e si alimenta – anche con elementi linguistici locali – delle condizioni della civiltà senese sia nella sua forte tendenza descrittivo-pittorica sia nel suo amore per il fasto e per la libera avventura e fruizione dei beni della vita.

Ma, a parte tale distinzione, quanto a scelta delle personalità maggiori, sarà certo da puntare (pur tenendo conto di un novelliere piú volto al gusto del fiabesco attinto dal ricco materiale delle fiabe popolari come fu Gianfrancesco Straparola con le sue Piacevoli Notti o di un autore di una singola novella particolarmente gentile, limpida e pateticamente sobria e sicura: il vicentino Luigi Da Porto con la sua Storia di due nobili amanti: Giulietta e Romeo) su tre scrittori piú nettamente originali e importanti: Francesco Grazzini, Matteo Bandello, Agnolo Firenzuola.

Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca (soprannome da lui preso come socio e fondatore dell’Accademia degli Umidi, antecedente della ben piú famosa Accademia della Crusca), nacque e visse fino alla morte a Firenze (1504-1584), dove esercitò la professione di speziale, partecipando alla vita letteraria della sua città con varie forme di attività (rime e soprattutto commedie) e risentendo dell’atmosfera piú bizzarra, antipedantesca e popolareggiante, ma insieme fortemente letteraria e fin accademica, che a Firenze si veniva formando a metà secolo in una certa reazione al classicismo e al gusto idealizzante e armonico piú forte all’inizio del secolo.

Di tale atmosfera e degli umori realistici e polemici di una società acre e incline alla beffa crudele e allo scherzo divertente e fantastico il Grazzini alimentò le sue inclinazioni personali al bizzarro e al fantastico, all’avventura movimentata e spesso sfociante nel dramma di casi dominati da una «fortuna» ostile e invincibile, e le tradusse soprattutto nella sua raccolta di novelle, Le cene, che, sulla base di un preambolo e di una cornice di tipo boccaccesco (alcuni giovani e ragazze si raccolgono in una giornata invernale e, dopo aver combattuto con palle di neve, a cena si raccontano, per reciproco diletto, ventun novelle: dovevano essere trenta in tre cene), offrono alcune delle novelle piú efficaci e a volte persino allucinanti del Cinquecento: sia che narrino beffe in cui la crudeltà conduce ai limiti della tragedia, sia che mettano in azione casi curiosi e fantastici, risolti in maniera inattesa e bizzarra, sia che piú apertamente puntino – come avviene nella eccellente novella di Fazio orefice – su avvenimenti tragici, impostati e svolti con mano ferma e lucido sguardo realistico e con un linguaggio popolareggiante e fresco increspato di modi piú alti e retorici in un impasto assai originale e robusto.

Ma certo maggiore è la vocazione narrativa del frate domenicano Matteo Bandello (nato nel 1480 a Castelnuovo Scrivia, presso Alessandria, e morto nel 1561, vescovo di Agen in Francia), che dalla sua viva esperienza di uomo vissuto in varie corti del tempo e dalla sua volontà di offrire appunto alla società cortigiana cinquecentesca narrazioni dilettevoli e interessanti per i casi e i comportamenti psicologici umani trasse materia e spinta alla composizione di un’imponente raccolta di novelle (di fronte a cui nettamente minore appare la sua attività di lirico petrarchista) divisa in quattro parti e munita, per ogni singola novella, di lettere dedicatorie a potenti e amici, tese a giustificare la «verità» degli avvenimenti narrati (molto spesso viceversa derivati da letture di cronache e novelle precedenti) e ad inserirli in una conversazione e in un’atmosfera contemporanea e quotidiana, accresciuta dal rifiuto di uno stile aulico e fiorentineggiante e dall’uso di un linguaggio piú spregiudicato, anche se tutt’altro che incolto e anzi spesso altamente eloquente e ornato.

La passione per la narrazione dei «casi» (ora comici e burleschi, ora tragici e pietosi) e per l’indagine minuta della psicologia dei personaggi nella loro grande varietà (ora appassionati, gentili, teneri, virtuosi, ora brutali e feroci, ora grotteschi e sciocchi) e nel loro inserimento in una realtà ambientale folta di oggetti, di interni di case, di paesaggi naturali, domina nelle novelle bandelliane e ne fa insieme una specie di specchio dei tempi e della vita quotidiana contemporanea e, nel caso delle novelle piú lunghe e complesse, una sorta di anticipo del vero e proprio romanzo moderno.

E per questa via – pur nella discontinuità di forza artistica, spesso aggravata da certa lentezza del ritmo narrativo e da certa opacità della descrizione oggettiva – la tensione psicologica del Bandello raggiunge risultati davvero cospicui: come è soprattutto quello della bellissima novella di Giulia da Gazuolo che nella narrazione della sventura e virtú dell’umile giovinetta violentata e suicida fonde altamente la forza robusta della narrazione oggettiva e la elegiaca e gentile poesia della descrizione psicologica della protagonista che non può, per la sua innata e purissima innocenza, sopravvivere all’oltraggio subito e prepara l’attuazione del suicidio attraverso una serie di atti minuti e pietosi (fino all’abbigliamento con le sue vesti festive pensate da lei come degne del suo gesto disperato e supremo) in cui si rivela poeticamente la sua femminilità, la sua purezza, la sua rassegnata e decisa scelta della morte nelle forme umili e antiretoriche suggeritele dalla sua personalità e dalla sua educazione.

Mentre il Bandello si dichiara poco curante dello stile e del linguaggio e punta soprattutto sulla forza della narrazione oggettiva e della descrizione psicologica (come in qualche modo cercherà di fare anche un altro novelliere piú tardo, il Giraldi Cinzio – già ricordato per le sue tragedie –, nella sua piú farraginosa raccolta di novelle, Gli ecatommiti, significativa per una maggiore cupezza di toni e atrocità di casi piú tipica del tardo Cinquecento), il fiorentino Agnolo Firenzuola (1493-1543) dette un valore molto alto proprio allo stile e alla lingua nelle dieci novelle comprese nell’opera incompiuta Ragionamenti d’amore, che intendeva rappresentare, in sei giornate, le piacevoli conversazioni di tre giovani e tre dame in una villa presso Firenze e la loro lettura di poesie, dissertazioni sull’amore e, appunto, novelle di soggetto erotico-comico.

In realtà, se nelle novelle e in genere nei Ragionamenti (come ancor piú nella versione-rielaborazione dell’Asino d’oro, romanzo latino di Apuleio) sono presenti l’intento stilistico, il gusto della bella pagina elaborata con estrema sapienza formale e quasi musicale e con l’uso di un linguaggio insieme raffinato e fresco, nella maturità felice di questo scrittore il suo istinto di stilista tanto meglio si perfeziona e insieme si nutre dell’ideale rinascimentale della bellezza corporea e spirituale quale viene esposto nel trattato il Dialogo della bellezza delle donne, e di una saggezza ed esperienza realistica che trova la sua espressione piú intera nel capolavoro firenzuolano narrativo-favolistico della Prima veste dei discorsi degli animali (1541). Si tratta del libero rifacimento di una traduzione spagnola del Panciatantra, antica raccolta di favole e novelle indiane, incentrata in animali che rispecchiano situazioni e riflessioni umane, la cui materia narrativa e morale è rivissuta originalmente dal Firenzuola in una dimensione ben sua (e ben intonata a centrali elementi del gusto e della visione rinascimentali) di modesta, misurata, concreta sapienza morale e di stile che coerentemente a quella aderisce con singolare misura di evidenza realistico-fantastica, di chiarezza limpida e leggiadra.

4. Aretino e Doni

In una posizione tanto meno legata a prevalenti direzioni di esemplarità classicistica e anzi intonata insieme ad una forte volontà antiaccademica e antipedantesca, fuori di ogni regola e norma precostituita, e ad una piú estrosa e libera disponibilità personale ad ogni possibile avventura letteraria, ad ogni occasione atta a sollecitare il proprio estro e ingegno, si collocano – nel pieno del secolo – numerosi scrittori, che variamente, ma non senza qualità e vocazioni autentiche, si servono della loro abilità scrittoria anche come mezzo di successo, prestigio, guadagno nel mondo delle corti rinascimentali e nel ricco mercato editoriale avido di nuovi prodotti letterari da offrire ad un pubblico enormemente accresciuto dalla grande diffusione della stampa.

Spicca fra questi per il suo temperamento risentito e vigoroso, per la sua violenta carica satirica e critica esercitata fino al gusto dello scandalo e al cinismo, ma non priva di valide ragioni di fronte al contrasto fra ideali esemplari e realtà utilitaristica e corrotta del complesso mondo e costume del suo tempo, la personalità di Pietro Aretino (1492-1556), troppo a lungo considerata solo come quella di un avventuriero della penna, sfacciato e immorale, avido solo di potenza e di guadagno, volta a volta adulatore e stroncatore feroce dei potenti e cosí capace di assicurarsi un singolare prestigio, fatto di ammirazione, di timore per la sua possibilità di elevare o distruggere la fama dei principi, degli artisti, dei letterati.

In realtà egli fu anche questo, specie quando – dopo una gioventú difficile e avventurosa, spesa a costruire, partendo da condizioni umilissime, la sua potenza letteraria ed economica (ma anche, si noti subito, ad accrescere la propria cultura a contatto con le varie correnti e con i maggiori esponenti del gusto rinascimentale) negli ambienti cortigiani di Roma e di Mantova – nel 1527 si stabilí definitivamente nella piú libera Venezia vivendovi sontuosamente e da lí proseguendo ad imporsi come «flagello dei principi» e insieme come protetto dei maggiori potenti d’Italia e d’Europa, come gli stessi Francesco I di Francia e Carlo V di Spagna.

Ma – come dicevo – mentre le sue polemiche e le sue satire feroci (iniziate a Roma con le celebri «pasquinate» contro la curia e l’austero papa Adriano VI) non mancano di ragioni valide – anche se non sempre coerentemente consapevoli – nella realtà di un tempo splendido, ma pieno di corruzione morale, cosí la sua esuberante e disordinata attività letteraria non è solo intesa al successo, al guadagno, allo scandalo clamoroso, e si giustifica sia nei suoi aspetti piú apertamente osceni e libertini in grazia di una specie di esasperazione della materia corrotta con cui egli polemizza e in cui si trova violentemente implicato, sia nella sua enorme varietà di opere, costruite con un ingegno prontissimo e rapidissimo, in grazia di una versatilità genuina e di una disposizione invincibile ad assimilare e far proprie le mode e le forme di un tempo complesso e rapidamente mutevole imprimendo in esse la sua impronta di osservazione acutissima e di stile piú efficace che profondo, ma indubbiamente personale e robusto, nella sua irregolarità estrosa e nella sua genuina avversione alla composta e pedantesca linearità classicistica.

Cosí questo singolare scrittore prosatore poté passare dalla fresca briosità delle sue già ricordate commedie (il Marescalco, la Cortigiana, l’Ipocrito, la Talanta, il Filosofo), alla violenza espressiva e rappresentativa dei Ragionamenti delle cortigiane (che ritraggono con spregiudicato realismo il mondo osceno e turpe delle prostitute), alla libera drammaticità della sua tragedia, l’Orazia, all’eloquenza turgida di alcune opere religiose (come l’Umanità di Cristo o le vite di Maria, di santa Caterina, di san Tommaso), alla varietà di toni delle raccolte, in sei volumi, delle proprie lettere: lettere che, tutto sommato, costituiscono la sua opera piú interessante, l’espressione piú completa del suo estro e della sua foga inventiva, del suo forte gusto visivo, coloristico e impressionistico (si pensi almeno alla bellissima descrizione dello spettacolo del canal grande veneziano nella luce del tramonto in una lettera al Tiziano), nonché di certe pieghe piú affettuose e sensibili (come nella lettera a Sebastiano del Piombo la tenera commozione per la propria figlioletta) del suo animo complesso (anche se non profondo), attratto da tutti gli aspetti della vita anche se incapace di assurgere, anche nella sua espressione artistica, ad una visione alta ed organica.

Meno dotata di forza artistica di quella dell’Aretino, ma assai vicina alla personalità di questo per la posizione antipedantesca e per la volontà di un atteggiamento di intellettuale e scrittore spregiudicato e irregolare, è la personalità del fiorentino Anton Francesco Doni (1513-1574), che ben significativamente denuncia le contraddizioni e l’ambiguità insite nello sviluppo del Cinquecento (attrazione e rifiuto del classicismo e degli ideali esemplari) sia con la sua stessa vita errabonda e irrequieta sino alla solitudine quasi maniaca in un torrione vicino a Monselice, sia, e meglio, con la sua attività letteraria varia e disorganica, dominata da un incontro di inquietudine, di ansietà malinconica, e di bizzarria e stravaganza, che, nell’impostazione quasi giornalistica e frammentaria delle diverse opere, rivela la capacità di pensieri tutt’altro che comuni e banali (fino ad utopie sociali e spunti di viva curiosità scientifica) e di vivacissime scenette e rapide figure della realtà storica ed esistenziale, colte fra coloritura burlesca ed estrosa e una venatura di amarezza crescente entro le stesse giustificazioni del passaggio cinquecentesco da un Rinascimento sereno e armonico ad un’atmosfera piú difficile e cupa.

E tale situazione e tale capacità meglio che in altre opere come le Librarie (tentativo di un repertorio bibliografico delle stampe e dei manoscritti letterari italiani) si possono cogliere – seppure sempre in forma frammentaria di pagine vive entro contesti generali farraginosi – nella Zucca, nei Mondi celesti, terrestri e infernali, e soprattutto (oltreché nelle raccolte di lettere) nei Marmi che prendono il titolo dai gradini di marmo del duomo di Firenze, dove si svolgono i dialoghi destinati a svolgere in una conversazione libera e disordinata le riflessioni, le scene, le novellette con cui il prosatore espone la sua bizzarra e malinconica meditazione e rappresentazione vitale.

5. La poesia antipetrarchistica e burlesca di Francesco Berni

La posizione polemica contro la pedanteria e gli ideali armonici e classicistici che ha indubbia forza (anche se non adeguata consapevolezza) nell’Aretino e nel Doni, prevalentemente prosatori (ché nella prosa essi trovavano lo strumento piú libero e adatto alla loro espressione), può ritrovarsi anche applicata alla poesia, nell’opera di Francesco Berni, nato a Lamporecchio nel 1498 e vissuto e morto – dopo un lungo soggiorno romano – a Firenze nel 1535. Ma va subito detto che il Berni nel suo attacco alla lirica petrarchistica, ai suoi temi armonici, platonici, al suo linguaggio alto e nobile, e nel suo polemico contrapporre a quelli un tipo di poesia burlesca, caricaturale, grottesca, come piú corrispondente alla realtà della vita e del tempo e ad un ideale letterario piú libero e vario, rimane pur sempre un vero e proprio letterato che sostituisce una maniera poetica ad un’altra maniera poetica senza riuscire ad aggredire di quest’ultima le ragioni piú profonde e a dare alla sua spavalda polemica un fondamento veramente nuovo e innovatore.

In effetti il Berni – che, fra l’altro, fu attratto dalla concezione bembistica del linguaggio poetico nel suo rifacimento «toscano» dell’Orlando innamorato del Boiardo e scrisse carmi latini di tipo umanistico – riprendeva, nella sua polemica contro il petrarchismo, la tradizione toscana della poesia burlesca e realistica che va dall’Angiolieri al Burchiello, e piú che veramente creare una poesia autentica e nuova egli si ridusse a fare la parodia del petrarchismo, magari minutamente contrapponendo – in un suo famoso sonetto – alle lodi delle bellezze fisiche e spirituali della donna amata quelle di una donna sporca e brutta.

Se questi sono i limiti di un poeta troppo ammirato e imitato fino al Settecento – tanto da costituire una vera e propria tradizione bernesca –, non sarà però da negare a lui – sulla base di un piú vago sentimento dei turbamenti e delle inquietudini del proprio tempo spesso e sempre piú scontento degli eccessi idealizzanti, platonici della forte linea bembistica e volto, per contrasto, magari al puro divertimento grottesco e deformante – una pur notevole abilità e agilità discorsiva e descrittiva che ben si avvale delle risorse del linguaggio toscano dell’uso corrente, nella sua grande ricchezza di modi di dire, di parole calzanti e pittoresche. E se il gusto di tale linguaggio e dei suoi modi vivaci e coloriti tocca i limiti della stucchevolezza nelle due farse rusticali in dialetto fiorentino, la Catrina e il Mogliazzo, esso tanto meglio funziona, oltreché nella prosa bizzarra delle lettere e del Dialogo contro i poeti, in alcuni sonetti e in alcuni «capitoli» in terzine che traggono spunto da argomenti banali, comuni, impoetici (le lodi delle anguille, delle pesche, dei cardi e magari dell’orinale), o, con piú sicuro risultato, da vicende comiche personali e storiche (l’ospitalità miserabile del prete da Povigliano in una stanza squallida e piena di insetti voraci o l’elezione del papa fiammingo Adriano VI, ferocemente satireggiato per i suoi atteggiamenti di severa riforma della curia pontificia) e li rappresentano con grottesca e bizzarra deformazione.

6. L’epopea grottesca del Folengo

Un certo attrito con la realtà molto diversamente pur si esercita nella direzione classicistica di poemetti didascalici esemplati soprattutto sulle Georgiche di Virgilio e volti a descrivere con cura di precisione ed eleganza stilistica oggetti, cose, azioni della vita rurale (come nei due migliori poemetti del tempo, le Api di Giovanni Rucellai e la Coltivazione dei campi di Luigi Alamanni) o speciali attività tecniche come è il caso della Nautica di Bernardino Baldi.

Ma il culmine di una posizione di ribellione – mediante il grottesco dilatato in vera e propria epopea – alla letteratura classicistica e bembistica è raggiunto, con ben diversa genialità poetica e profondità critica, dal mantovano Teofilo Folengo, uno dei maggiori scrittori del Cinquecento. Il Folengo (Girolamo è il suo nome di battesimo, Teofilo è quello monastico) nacque a Mantova nel 1491 e si fece a sedici anni monaco benedettino e come tale soggiornò a Brescia e a Padova, fino al ’24, quando, per oscure ragioni (tra cui forse inquietudini di carattere ereticale), abbandonò la vita conventuale e visse come precettore, presso la famiglia Orsini, a Venezia e a Roma. Riammesso, nel ’36, nell’ordine monastico, dopo quattro anni di vita eremitica, fu ancora a Brescia e a Palermo, per morire poi a Campese presso Bassano del Grappa, nel 1544.

Questo singolare e originalissimo scrittore, munito di una sicura cultura umanistica, ma tanto lontano dalle forme idealizzanti del Rinascimento platonico e bembistico, scelse però come suo prevalente mezzo espressivo quel latino «maccheronico» nato in ambiente goliardico padovano e consistente nell’applicazione di norme morfologiche, sintattiche e metriche del latino classico al lessico italiano e persino dialettale mantovano che, tra la fine del ’400 e il principio del Cinquecento, era stato già adoperato per opere satirico-burlesche da vari scrittori, fra cui Michele Odasi detto Tifi, autore della Macharonea.

E mediante tale mezzo espressivo tese – con attività e lavoro vario, complesso e assiduo, tutt’altro che dilettantesco – a dar vita al suo vigoroso e sanguigno mondo poetico nutrito di umori bizzari e fantastici e di polemici e satirici risentimenti personali e storico-culturali, animato da uno sguardo profondo nella realtà della vita contadina, con la sua brutalità, ma insieme con la sua piena umanità.

Per tale espressione del suo mondo poetico il Folengo riprese le forme del poema epico-cavalleresco. Ma mentre sul piano della letteratura piú aulica il Cinquecento tentava invano – al di là del Furioso e prima della Gerusalemme del Tasso – la creazione di un poema eroico piú vicino ai grandi modelli di Omero e Virgilio (il caso della frigidissima Italia liberata dai Goti del Trissino) o di un poema cavalleresco, ma piú regolare e unitario del Furioso (il caso dell’Avarchide e del Girone il cortese di Luigi Alamanni, dell’Amadigi e del Floridante di Bernardo Tasso, padre del grande Torquato), il Folengo genialmente puntò su di una deformazione violentemente parodistica e grottesca del mondo tradizionale della cavalleria accentuandone caricaturalmente gli elementi di violenza, di prepotenza, di brutalità e inserendolo nell’ambiente contadino e rurale vigorosamente rappresentato nelle sue usanze, nel suo realismo spregiudicato, nei suoi stessi affetti piú autentici e cordiali.

In questa direzione – dopo prove piú giovanili e incerte come la Moscheide (che descrive comicamente una guerra tra mosche e formiche) e una prima forte rivelazione delle tendenze piú genuine della sua poesia (la Zanitonella che narra gli amori di due contadini, Zanina e Tonello, e in quelli rappresenta concretamente la forza della passione in animi rozzi e schietti) – il Folengo costruí il suo capolavoro, lungamente elaborato e rielaborato in ben quattro successive stesure (dal 1517 alla morte): il poema Baldus, in venti libri in esametri, pubblicato con lo pseudonimo di Merlin Cocai, imperniato nella storia avventurosa di Baldo, discendente dai paladini di Francia, ma nato nel paesetto di Cipada, presso Mantova, e allevato (poiché la madre Baldovina è morta nel darlo alla luce e il padre Guidone è partito per un pellegrinaggio) dal contadino Berto in un ambiente primitivo in cui l’eroe cresce prepotente e manesco, fa lega con le piú spericolate canaglie del paese (fra cui si distinguono Cingar, truffatore, ladro e inventore di inesauribili astuzie, il gigante Fracasso e il mostruoso Falchetto, mezzo uomo e mezzo cane; personaggi cui non manca il ricordo di personaggi del Morgante del Pulci, come Margutte e Morgante), tiranneggia Cipada finché – liberato ad opera dei suoi compagni dal carcere in cui è riuscito a metterlo il podestà del paese, s’imbarca, con i suoi amici, a Chioggia, combatte con i pirati, distrugge il regno delle streghe, visita favolosi paesi, per finire poi nell’inferno e in un’immensa zucca dove vengon puniti i bugiardi e, fra essi, i poeti e i filosofi e lo stesso Merlin Cocai a causa delle menzogne e stravaganze di cui ha coscientemente riempito il suo poema.

La storia del Baldus ha una sua svolta essenziale nella fuga di Baldo dal carcere e nel viaggio intrapreso da Chioggia. Sicché è possibile rilevare nella prima parte (i primi undici libri) la zona poetica piú gagliarda e corrispondente alla vocazione folenghiana per la rappresentazione fortemente realistica del mondo contadino, comica, grottesca, parodistica, ma anche piena di schietta simpatia per una vita autentica e piena di autentiche passioni, cosí come il gusto di rappresentare, in Baldo e nei suoi compagni, un tipo di personaggio rozzo, cinico e canagliesco si associa ad una singolare simpatia per un mondo ribelle ad ogni legge, privo di ogni remora moralistica e conformistica. Ma anche la seconda parte, in cui prevale l’estro inventivo di avventure paradossali e fantastiche, ben rivela altre componenti del complesso mondo poetico folenghiano (l’amore per il meraviglioso, per il magico, per il bizzarro), e insieme si raccorda alla prima nella generale foga narrativo-rappresentativa, nella complessa ispirazione epico-parodistica-satirica e in quell’ansia di realtà e di libertà fantastica che pervade tutto il poema e che giustifica poeticamente il latino maccheronico del Folengo, con la sua efficacissima mescolanza di dotto e di plebeo, di umanistico e di realistico, come potente creazione personale e non come semplice passiva accettazione di un linguaggio già precostituito dalla precedente e ricordata tradizione padovana.

Minore, rispetto al Baldus e alla stessa Zanitonella[1], è la tensione poetica di altre opere folenghiane: fra le altre in italiano due poemi tardi di argomento religioso, l’Umanità di Cristo e la Palermitana, un poema pure in italiano, l’Orlandino, che ricalca spesso le avventure del Baldus caricandole però di violente satire contro l’ambiente conventuale e fratesco, il Caos del triperuno, che usando tre linguaggi diversi – il maccheronico, l’italiano, il latino teologico – e mescolando prosa e versi intende bizzarramente rappresentare la storia simbolica e complicata delle vicende vitali del poeta. Ma anche queste opere van pure ricordate a rendere almeno un’idea generale della vastissima operosità del Folengo e dello spirito complesso della sua originalissima e inquieta personalità.

7. Biografi e scrittori di lettere: Cellini e Caro

Nel solco cosí forte dell’attenzione cinquecentesca alla vita, alla realtà, e alle concrete personalità individuali dovrà ora considerarsi, puntando almeno su due piú rilevanti scrittori, un’altra delle linee e direzioni letterarie di cui il grande secolo è folto nella sua enorme fertilità di riprese e rinnovamenti, creazione di prospettive espressive e nella complessità della sua articolazione e del suo sviluppo tutt’altro che compatto e monotono.

Mentre numerose sono le biografie di personaggi illustri (si pensi almeno alla già ricordata Vita di Castruccio Castracani del Machiavelli), ad esse si affiancano, con un naturale maggiore impegno di rappresentazione e di analisi, fondata su diretta esperienza, varie scritture autobiografiche (come la già ricordata Apologia che Lorenzino de’ Medici scrisse in difesa del suo assassinio del duca Alessandro), fra cui spicca, con eccezionale vigore originale, la Vita di Benvenuto Cellini.

Il Cellini, nato a Firenze nel 1500 e morto nel 1571, ebbe effettivamente una vicenda vitale romanzesca e difficile, sia per il suo stesso carattere egotistico, ambizioso, rissoso, sia per la sua irrequietezza spirituale, sia per la complicata trama di vicende storiche e di rivalità di altri artisti, di umori capricciosi di principi mecenati entro cui egli si trovò preso dalla giovinezza fino alla morte difendendo comunque accanitamente la sua vocazione di artista e la sua strenua fedeltà a quella e alla sua estrinsecazione in opere di scultura e di oreficeria.

Dopo l’apprendistato artistico nelle botteghe di alcuni orefici fiorentini, già nel ’16, in seguito ad una rissa, egli fu esiliato a Siena e – dopo un periodo passato a Roma – tornato a Firenze ne fu di nuovo bandito per nuove risse e si stabilí a lungo a Roma protetto da Clemente VII, lavorandovi come orafo e partecipando alla difesa di Castel Sant’Angelo durante il sacco di Roma del ’27. Ma – dopo un viaggio in Francia – l’uccisione di un gioielliere nemico gli attirò l’odio di Pier Luigi Farnese, figlio del papa Paolo III, e causò il suo imprigionamento in Castel Sant’Angelo e la sua romanzesca fuga da quello, e il definitivo abbandono di Roma, nel 1540, quando trovò rifugio e protezione in Francia alla corte di Francesco I. E tuttavia ancora una volta l’invidia e l’odio di altri artisti e della favorita del re lo costrinsero, nel ’45, a lasciare una corte dove aveva svolto una fertilissima attività di orefice, di scultore, di decoratore e a ricercare una nuova protezione nella città natale presso la corte del duca Cosimo de’ Medici rimanendovi fino alla morte, ma ancora alternando l’impegno nel lavoro artistico (da cui nacquero le sue piú famose opere di scultura come il Perseo) e nella nuova attività letteraria con lunghe liti con altri artisti rivali e le grosse difficoltà economiche derivate dalla avarizia e ingratitudine del duca e dalle malattie.

Ma certo, se la materia della sua vicenda vitale era di per sé ricca e romanzesca, la narrazione che il Cellini ne fece (fra il ’58 e il ’66, e dunque nella parte ultima della sua vita quando egli scrisse anche numerose rime e lettere, e vari trattati sull’arte, sulla scultura e sull’oreficeria, assai importanti per il valore da lui dato alla tecnica e alle sue complesse difficoltà) la fece risultare tanto piú romanzesca e appassionante, come apparve ai lettori e ai critici che solo nel Settecento (quand’essa venne finalmente pubblicata) poterono conoscerne e ammirarne l’eccezionale valore espressivo, la schiettezza e forza della lingua, e, attraverso questa, la potenza della rappresentazione autobiografica. Poco importa se sul piano minuto dei fatti il Cellini abbia esagerato o alterato la verità esaltando e difendendo se stesso, il suo eroico sforzo di lavoro, la giustizia delle sue azioni anche criminose. Perché al fondo stesso di questa deformazione di vari fatti e momenti della sua vita si rivela la forza prepotente di una personalità umana e artistica che si considera al centro del mondo in cui vive e che rivede le proprie vicende alla luce di un altissimo senso della propria alta “virtú” di artista e di uomo, sentendosi protagonista degli avvenimenti a cui si trova a partecipare (il caso della difesa di Castel Sant’Angelo che nelle pagine ad essa dedicate nella Vita appare dominata dalla presenza del Cellini e dei suoi accorgimenti militari fino alla dubbia attribuzione a se stesso della uccisione, con un colpo di colubrina, del comandante dell’armata assediante), esaltandosi appassionatamente nel rievocare la propria eroica battaglia per l’affermazione della sua arte e delle sue ragioni contro tutto e contro tutti, rilevando con eccezionale efficacia i piú minuti particolari della sua natura vigorosa e della sua vocazione combattiva e aggressiva senza mai dubitare delle possibili ragioni dei suoi nemici e dei propri difetti e passioni.

Cosí fin nella narrazione della propria infanzia il Cellini esalta il proprio naturale intrepido coraggio nell’inconsapevole cattura di un temibilissimo scorpione, cosí nelle grandi pagine del tentativo di fuga dalla prigione di Castel Sant’Angelo egli esalta la propria astuzia nel servirsi, per il suo piano temerario, della follia del governatore del castello e il proprio valore nel disperato sforzo di proseguire ad ogni costo la sua fuga anche quando, malamente caduto nel calarsi faticosamente nel fossato, si trova con una gamba spezzata e privo di forze. Cosí, in uno degli episodi piú impressionanti della Vita, la passione per l’arte e l’istinto di esaltazione eroica di se stesso si fondono nella narrazione della lotta lunga e drammatica contro ogni avversità, esercitata per fondere la statua bronzea del Perseo, mentre la bottega era in preda alle fiamme, la pioggia a scroscio freddava la fornace e una febbre terribile lo costringeva a mettersi a letto, per poi rialzarsene impetuoso all’annuncio che la sua opera era irrimediabilmente guasta e, contendendo con servitori e garzoni, riuscire a far riprendere la fusione e condurla vittoriosamente a termine.

Ma alla forza espressiva e rappresentativa della Vita contribuiscono altri elementi della personalità celliniana: come la forte attrazione superstiziosa per la magia (e si pensi alla scena allucinata e fantastica dell’esperimento magico nello scenario solitario e solennemente pauroso del Colosseo) o il gusto dell’indagine e interpretazione dei propri sogni e del proprio subconscio, o viceversa la franca e improvvisa capacità di abbandono alla evidenziazione di singolari aspetti comici e bizzarri o tragici e cupi della realtà.

Nell’insieme ne nasce un libro complesso e robusto in cui l’idealizzazione violenta di se stesso e il gusto della realtà si fondono in una specie di unità non armonica, ma possente, cui internamente aderisce il linguaggio vigoroso e immediato, costantemente teso e incisivo, con la sua sintassi irregolare e libera, con le sue risorse di calore e vivacità energica attinte genialmente dalle forme popolari del fiorentino parlato ed esercitate con la libertà di uno scrittore non professionale, anche se non incolto e rozzo.

Ben diversamente nutrita di cultura umanistica e classicistica, disposta umanamente ad un’affermazione di sé attraverso una ben diversa abilità e cautela diplomatica di uomo di corte, fortemente inclinata alla prevalente passione per la letteratura e la perfezione stilistica, eppure non priva di elementi di curiosità e di interesse per la realtà e la sua rappresentazione, appare la personalità di Annibal Caro, che soprattutto nelle lettere può pur raccordarsi alla linea degli autobiografi e dei descrittori della realtà umana e ambientale di cui abbiamo parlato.

Nato a Civitanova, nelle Marche, nel 1507, il Caro perfezionò la sua educazione culturale e letteraria a Roma e a Firenze, trascorrendo poi la sua vita, conclusa nel 1566, nelle corti di Roma, di Parma, e Piacenza, al servizio soprattutto del Farnese alla cui politica egli collaborò come diplomatico e soprattutto come letterato, insieme lottando per la propria posizione autorevole di scrittore in un’accesa polemica col Castelvetro, documentata in quella Apologia che bene esprime i suoi ideali di «classicista moderno», aperto ad una valorizzazione della libera fantasia, ma insieme ad una concezione della poesia estremamente elaborata e preziosa.

Da tali ideali e dall’accennato incontro di letteratura e di amore per l’esperienza della realtà traggono origine – entro la rete complessa delle sue numerose opere – soprattutto la notevole e già ricordata commedia Gli straccioni, ricca di una vena affettuosa e comica, e, piú in alto, la celebre versione dell’Eneide virgiliana, originale contemperamento del classicismo rinascimentale con elementi nuovi e in qualche modo anticipatori di elementi e toni tasseschi, fra elegia e sostenuta elevatezza epica, fra apertura al gusto di paesaggi notturni e suggestivi e modi concettosi di esaltazione eroica, fra forme piú dimesse e quotidiane di linguaggio e preziosismi coloristici e tonali, e quelle lettere, cui prima accennavo, e che meglio sostengono (si pensi alla lettera sul viaggio e soggiorno a Tolfa, paesetto fra Civitavecchia e Viterbo) la centrale immagine di questo scrittore, sapientemente equilibrata fra estroso gusto di letterato e sincero e saporito amore per la realtà piacevole e bizzarra di cose e persone in un compiaciuto bisogno di evasione dagli aspetti piú duri e ostili della stessa realtà.

8. Viaggiatori

Sarà infine da ricordare, in un breve paragrafo particolare, ma ricollegabile al gusto cinquecentesco del narrare esperienze vissute e insieme avventurose e ispirate alla curiosità del nuovo e del meraviglioso, l’attività scrittoria dei viaggiatori del secolo, numerosi in relazione a un’epoca contraddistinta anche dalle grandi scoperte geografiche. Notevole per piú schietta e ingenua vivacità risulta il diario con cui il vicentino Antonio Pigafetta narrò le vicende fortunose della spedizione di Magellano intorno al mondo, come importante soprattutto per la somma di notizie raccolte da varie relazioni di viaggi e per la grande dottrina geografica e cosmografica contenutavi è l’opera in tre volumi Delle navigazioni et viaggi del trevisano Giambattista Ramusio.

Ma l’opera piú valida letterariamente, piú ricca di esperienza diretta, di idee acute e di intelligente e viva sensibilità è certo la raccolta delle lettere che il fiorentino Filippo Sassetti (1540-1588) scrisse dalla penisola iberica e dalla costa del Malabar in India. Il Sassetti era un tipico rappresentante della Firenze mercantile e colta e la sua cupidigia di mercante attento e tecnicamente preparato (come si può vedere nel suo Ragionamento sopra il commercio fra i fiorentini e levantini, con una notevole difesa del libero scambio almeno nell’interesse dei commercianti) e di un letterato ben affinato con il gusto e con la cultura rinascimentale della sua città (e come tale lasciò una bella vita di Francesco Ferrucci e scritti su Dante, Ariosto, Aristotele) permise al suo intelletto chiaro e positivo, ma arricchito appunto da una sensibilità schietta ed educata, di realizzare nelle sue Lettere e nella loro prosa limpida e distesa una narrazione folta di acute osservazioni su terre, usi, lingue di popoli lontani individuate lucidamente nella loro concreta particolarità, nelle loro condizioni concrete il piú possibile spiegate e descritte con una volontà di comprenderle che è ben significativo della intelligenza cinquecentesca, e insieme paragonate alle situazioni italiane e particolarmente fiorentine senza locali o nazionali prevenzioni, ma non senza una sottile nostalgia per ambienti cari e familiari, per amici e condizioni culturali, a cui il Sassetti, nella sua lontananza da Firenze e dall’Italia, guarda costantemente come alla riserva piú profonda del suo animo e della sua stessa capacità di comprensione intelligente e sensibile dei lontani paesi in cui vive.


1 E davvero dispiace non poter riportare nell’antologia di questo volume per ragioni di difficoltà linguistica (né varrebbe servirsi di una traduzione insufficiente a rendere il vigore inerente al preciso linguaggio maccheronico) qualche brano della Zanitonella e del Baldus.